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Arte e Cultura | 27 ottobre 2018, 01:15

Un grande giallo

INTERVISTA A LUCIA TILDE INGROSSO, AUTRICE DI "UNA SCONOSCIUTA" - SCRIVERE SORRIDENDO

Un grande giallo

 

Nelle librerie è arrivato un grande giallo. Si intitola Una sconosciuta (Baldini + Castoldi, 280 pagine, 14,45 euro), ed è di Lucia Tilde Ingrosso, una delle narratrici più interessanti dell'attuale panorama letterario.

Prima dell'intervista, ecco l'incipit di Una sconosciuta.

La curva. La curva si sta avvicinando un po’ troppo velocemente. Stasera ho il piede pesante, mi sa. È che sono impaziente. Non vedo l’ora di divertirmi un po’ con lui. Emette un verso. Una via di mezzo fra un gemito e un colpo di tosse. Quanto può essere eloquente anche un banale verso. «Tranquillo, ho la patente da venticinque anni» lo rassicuro. O almeno ci provo. Ecco la curva. Non me la ricordavo così stretta. Non a caso la chiamano la curva della morte. Ma io non sono superstiziosa. E poi stasera niente può andare storto.



Lucia, sei una scrittrice ormai affermata, e sei una giornalista. E poi sei una mamma, una donna cresciuta a Milano con altre parentesi importanti – dai tuoi anni cortonesi alla tua esperienza ungherese che ti introdusse a Millionaire – e poi sei una donna che sorride. Mi racconti il tuo sorriso? Sorridi anche quando scrivi?

La domanda più bella che mi sia stata mai fatta. E la risposta è sì. Sorrido anche quando scrivo. Per me la scrittura è una gioia, un atto creativo, il mezzo per raccontare storie, suscitare emozioni, trovare nuovi amici.



Ma il tuo nuovo libro, Una sconosciuta, ha in copertina uno sguardo di donna che non sorride. Raccontaci questa copertina (è stupenda e te la invidio: la vorrei per un mio libro). Sei stata tu a suggerirla oppure è stato un dono inatteso?

La seconda che hai detto. È stato l’editore a trovarla. La versione precedente mostrava un volto di donna riflesso da uno specchio rotto. Ma questa immagine è molto più forte: evoca l’evento da cui parte tutto, cioè un incidente stradale. Ma va oltre: mostra la protagonista che si scruta nello specchietto retrovisore, alla ricerca (per molte pagine invano) della vera se stessa.



Questo libro è bello come la sua copertina?

Due giorni fa ti avrei risposto che lo è anche di più. Ma ora che il romanzo è uscito e ha iniziato il suo percorso autonomo, ho mille dubbi. Come da autore sai anche tu, finché non arrivano i primi riscontri dei lettori veri (cioè non degli addetti ai lavori né di chi ti vuole bene) si galleggia nell’incertezza. Piacerà o non piacerà? È il libro della svolta o un rovinoso passo falso?



La Milano di Renato Olivieri (ho letto che lo ami; per me è il numero uno, mi sarebbe piaciuto conoscerlo) ti ha suggerito personaggi e storie?

Sì, certo. Renato Olivieri era un grande scrittore e un uomo delizioso. Ho avuto la fortuna di conoscerlo. Ero un aspirante scrittrice e lui un mostro sacro. Abbiamo fatto lunghe chiacchierate e pranzato insieme più di una volta. Ricordo che quando lo andai a trovare per la prima volta, nella sua grande casa piena di opere d’arte, rimasi un po’ delusa. Senza rendermene conto, mi aspettavo che ad aprirmi la porta sarebbe stato il commissario Ambrosio in persona. Sebastiano Rizzo, il protagonista dei miei gialli milanesi, nasce da queste suggestioni. Non a caso il nome dell’aiutante di Rizzo, De Carlo, echeggia quello dell’aiutante di Ambrosio: De Luca.


Come è nata l'idea di Una sconosciuta?

Da un incubo estivo, quattro anni fa. Ero in vacanza e mi sono svegliata disorientata. Non solo non ricordavo dove fossi (il che capita, quando sei in vacanza). Per un lungo, terribile attimo non ricordavo proprio nulla, di me. Lì ho iniziato a ragionare sulla spaventosa sensazione di perdere il proprio passato. Da quello spunto mi è venuta l’idea di una donna affetta da amnesia, che si riappropria poco a poco del suo passato, un passato però in cui non si riconosce e che la spaventa. Un passato in cui si cela la ragione, fino a un certo punto oscura, che ha spinto qualcuno a cercare di ucciderla.


Come nasce Lucia Tilde Ingrosso scrittrice? È solo (si fa per dire) un sogno divenuto realtà?

Avevo dieci anni e, con una macchina per scrivere regalo di mio padre, ho cominciato a scrivere storie. All’inizio mi ispiravo ai libri che leggevo (i romanzi di Salgari su tutti) e ai telefilm che vedevo in tv (Amore in soffitta, per esempio). Pochi anni dopo, ho mandato un racconto a un concorso del settimanale l’Espresso. Come premio di consolazione ho ricevuto un abbonamento di sei mesi. Era mio padre a leggere la rivista, ma io lì ho capito che scrivere poteva portarmi qualcosa di buono. E ho cominciato a sognare di fare della scrittura un lavoro.


Lucia, abbiamo avuto una conoscenza in comune (tu più di me): Tecla Dozio.

Tecla era fantastica. Una donna colta, intelligente, spiritosa. Innamorata dei libri, ma soprattutto degli scrittori. Con scarsa attitudine commerciale, come molti intellettuali. E questo, da libraia, è stato il suo limite. La sua libreria era un luogo magico, in cui le porte erano sempre aperte, la conversazione brillante e il cibo squisito. Lì ho conosciuto Massimo Carlotto e Giorgio Faletti, Bebo Storti e Carlo Oliva, giusto per fare qualche nome. Se ne è andata troppo presto. Di recente, Tecla è stata ricordata nel corso di un bellissimo festival di due giorni nella biblioteca di Cassina Anna a Milano. In quell’occasione, la scrittrice Elisabetta Bucciarelli ha ricordato come la libreria di Tecla fosse il luogo di elezione per la prima presentazione di ogni giallista milanese. Sentiamo molto la sua mancanza.


Lucia, ho letto che hai frequentato un corso di scrittura e che ti è servito. Sei una voce fuori dal coro...

Il talento per la scrittura è innato, ma si può affinare. Un buon corso non ti insegna a scrivere, ma ti aiuta a osservare il tuo lavoro in modo critico. Alla fine di ogni lezione, leggevamo a turno un brano. All’inizio, i testi degli altri mi sembravano pieni di difetti, mentre i miei mi apparivano ineccepibili. Con l’esercizio, il senso critico e il confronto ho imparato a mettermi in discussione. In più, ho conosciuto addetti ai lavori che mi hanno aperto la mente. E colleghi di cui sono ancora amica.


Sei eclettica, scrivi anche saggi, scrivi anche libri per ragazzi, ma col passare del tempo sembra che sia il genere giallo stia prendendo il sopravvento.

Il giallo è il mio primo amore. Da appassionata di Agatha Christie, ho sempre invidiato la sua capacità di costruire meccanismi gialli perfetti all’interno di romanzi con ambientazioni e personaggi indimenticabili. Mi piace unire le abilità logico-matematiche (quelle che ti permettono di dosare gli indizi, creare i colpi di scena, gettare fumo negli occhi al lettore) con quelle letterarie. Mi piace divertire, intrigare e spiazzare il lettore. Il giallo è il tipo di libro che mi diverte di più scrivere. Le maggiori soddisfazioni, però, le ho avute scrivendo per i più giovani. Con Il sogno di Anna, che porto ancora nelle scuole, ho la sensazione di lasciare qualcosa ai ragazzi. Motivazione, soprattutto.


Due curiosità. Il primo libro che hai letto e quello, letto da grandicella, che avresti voluto scrivere tu.

Piccole donne è il primo romanzo che ricordo di aver davvero amato. Se sono ciò che sono, è anche per colpa (merito?) di Jo, la sorella ribelle che amava tanto scrivere. Da ragazzina, sono rimasta a bocca aperta per la prosa grandiosa di Curzio Malaparte (leggevo La pelle di nascosto, quando i miei genitori uscivano di casa). L’autore noir che amo più di tutti è Cornell Woolrich: una vita disperata, romanzi potenti e in gran parte sottovalutati.


Lucia Tilde Ingrosso è nata a Milano. Dopo la maturità classica a Cortona (uno dei luoghi di Una sconosciuta), si è laureata in Economia aziendale alla Bocconi. Giornalista professionista dal 2001, lavora nella redazione del mensile di business Millionaire.
Questo è il 21° libro che pubblica, il 6° giallo, il 1° senza il suo abituale protagonista Sebastiano Rizzo e lontano da Milano. Tiene corsi di scrittura. Adora la Puglia, è tifosa della Fiorentina, per lei Antognoni è il più grande numero dieci del calcio italiano. Le piacerebbe lavorare di più con i ragazzi.









 

Remo Bassini

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