«Mi colpisce sempre la morte di uno sportivo, non so perché, ma in qualche modo mi meraviglia che possano morire, che siano comuni mortali. Personaggi come Paolo Rossi, mi sembra che debbano essere invece immortali» dice Maurizio Codogno, classe 1954, ex giocatore ed ex allenatore.
Lo potete incontrare con un giornale o un libro sottobraccio in piazza Cavour. Oppure con la moglie Margherita, che lo ha seguito nelle città in cui ha giocato. Oppure in canile, insieme ad altri volontari. Di poche parole, parla poco di calcio. Eppure, soprattutto qualche tifoso bergamasco, si ricorda ancora di lui: Quello che nella stessa partita non fece toccare palla prima a Paolo Rossi e poi a Platinì.
Dice Codogno: «Quella partita in realtà mi ha... un po' perseguitato per tutta la vita: è stato (vedi Andy Warhol) il mio famoso quarto d'ora di notorietà...»
In realtà la sua carriera è stata intensa. Nato nel bergamasco, ma vercellese dall'età di 4 anni («dall'asilo alla Ragioneria, le scuole le ho fatte qua» dice), la storia calcistica di Maurizio Codogno comincia, appunto, a Vercelli. Inizia a giocare in due società, contemporaneamente, allora si poteva. Nell'Agnesina, squadra della parrocchia di Sant'Agnese, e nella Pro Vercelli, dove Maurizio fa tutta la trafila. Gioca stopper. È tenace, veloce, se la cava nel gioco areo. La grinta e l'impegno saranno i tratti distintivi che lo contraddistingueranno sempre.
Dopo la Pro Vercelli va a Terni, poi Modena, poi, a trent'anni giusti, veste la maglia dell'Atalanta allenata da Nedo Sonetti (poi vestirà le casacche di Arezzo e Novara). Col tecnico, Maurizio, inizialmente non lega molto.
«Era un personaggio dal carattere particolare e mi sono scontrato spesso con lui, ma nel tempo l'ho rivalutato. Intanto ebbe il coraggio di farmi giocare in serie A, appunto a trent'anni suonati, e per i tempi era sicuramente un allenatore all'avanguardia, tatticamente e nei metodi d'allenamento, vero che non era facile da sopportare, però era uno che teneva il gruppo coeso.»
Ma tu, Paolo Rossi lo avevi marcato prima di giocare a Bergamo. «Sì in Coppa Italia, non ricordo esattamente l'anno, poteva essere il 79 o l'80. Io giocavo nella Ternana, lui nel Perugia. Era giocatore molto motivato, doveva ancora dimostrare chi era. Disputai una buona gara ma faticai a tenerlo a bada anche se disputai una buona prova.»
E poi arriviamo alla famosa partita di Bergamo. Gennaio 1985, l'Atalanta ospita la Juventus di Cabrini, Scirea, Tardelli, Platini e Boniek «e io – racconta - dovevo appunto marcare Rossi. Come potevamo io e i mie compagni non avere stimoli? Senza dimenticare il nostro mister, Sonetti, che ci caricò a dovere.»
Parlaci di quella partita. Parlaci di Paolo Rossi.
«Era un giocatore di grande talento, tecnicamente eccezionale, rapido nei movimenti e nell'esecuzione delle giocate, dovevi cercare di anticiparlo altrimenti erano guai, in area non lo potevi perdere mai, e lui aveva l'abilità di smarcarsi in modo imprevedibile: una frazione di secondo e lo trovavi davanti a te pronto a colpire. Ma era un giocatore corretto, quando subiva qualche fallo di troppo non protestava, insomma un giocatore d'altri tempi. Mi andò bene, lo anticipai spesso, insomma giocai decisamente una buona partita.»
Poi, Paolo Rossi esce, la partita continua e a te tocca Platinì.
«A venti minuti dalla fine Paolo Rossi, piuttosto provato perché il campo era molto pesante, uscì, al suo posto entrò Vignola, un centrocampista, e io passai a marcare Platini che giocava da seconda punta, anche se retrocedeva molto a centrocampo. Di lui notai l'abilità che aveva nel liberarsi dalla marcatura per andare a prendere palla, era abbastanza statico poi un movimento, pochi passi ed eccolo palla al piede a far correre gli altri. Che dire, un fenomeno. Finì uno a uno: per noi, dopo una buona prova, un pari contro i bianconeri era un ottimo risultato e per me fu un'esperienza che non avrei mai dimenticato».